lunedì 30 settembre 2013

C'era una volta....

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a brevi puntate, rivivrò con voi il tempo dei miei svaghi giovanili e - nella speranza di non
annoiare vi narrerò di quelle che erano le Seychelles del tempo di guerra e dell’immediato dopo guerra.

Ho sempre trascorso le vacanze scolastiche prima, e il tempo libero poi, dai 9 ai 17 anni IN CASCINA nell’entroterra del lago di Garda, dalla mia zia Isabella. Là è avvenuta la mia educazione sessuale dovuta all’osservazione degli animali che andavano in calore, si accoppiavano, fino ad arrivare al parto, l’allattamento in tutto il ciclo vitale. E nulla mi stupiva.
Io e Daria, una delle figlie dei contadini passavamo ore a guardare i bachi da seta che si nutrivano di freshe foglie di gelso poi, andavamo per more tra i rovi che costeggiavano il fiume Chiese dalle acque limpide, gelide e saltellanti tra i sassi. Nonno Momolo pescava trote nel fiume mentre noi ci arrampicavamo sulle scale a pioli appoggiate agli alberi di ciliegio per gustare i duroni che erano gustosissimi chiari e rosei. Raccoglievamo fichi, quelli bianchi di modeste proporzioni che sapevano di ruvido miele. Cinque o sei fichi e un panino costituivano una colazione da re. Giornate piene di gioia, di nuovi interessi, di appaganti scoperte riferite ai doni che la natura elargiva a piene mani. Mi svegliavo davvero al canto del gallo tra quelle lenzuola di tela ruvida tessuta in casa che profumava di lavanda e sentivo subito il prepotente appetito che mi spingeva a gustare – già in attesa sul tavolo della vasta cucina - latte e caffè d’orzo col buon pane fatto nel forno sotto il portico. Pane freschissimo, ancora caldo e odoroso che - negli anni in cui il pane scarseggiava in città – era meglio della più deliziosa brioche.
 In cascina vivevano, abbastanza autonomamente, numerose famiglie e i bambini abbondavano .Ricordo che quando ad una mamma si chiedeva “Quanti figli ha ? la risposta era sempre preceduta dalla parola “Viventi !” “Viventi  7 “ Viventi  14 “ e viventi stava a significare che i più gracili, quelli che non ce la facevano erano (quasi) nella previsione. Il freddo, la miseria, la lontananza dai centri di cura dove, per arrivarci c’erano soltanto le biciclette, quando c’erano. E le strade, d’inverno, diventavano impraticabili. La mia zia Isabella abitava stabilmente in cascina con lo zio Vittorio e non avevano figli. Io arrivavo, attesa e amata dalla città, portavo sempre le scarpe e una ventata di curiosità scuoteva i bimbi del posto : “ Ghe riat la bresanina “ è arrivata la brescianina ! Nelle lunghe serate estive, sotto il lungo portico sistemavamo le panchine e io facevo teatro. Recitavo poesie, e inventavo scenette scegliendo tra i bimbi del posto, gli aspiranti attori. La scenetta che dovevo ripetere a furor di “bis” era la seguente: In scena con qualche straccio legato sui fianchi per  farla sembrare adulta un bimba grandicella doveva chiedermi : “Che fai bella fanciulla che guardi lontano per quella via ?”  “ Oh, se sapessi –rispondevo io molto calata nella parte – quando fu morta, l’han portata di là la mamma mia, ma mi han detto che debba tornare ! “ “ Ma non sai bella bambina che i morti al mondo non tornano più ?” e io con sul viso l’espressione dell’ indomita certezza rispondevo “Tornan nel prato i fiorellini miei, tornan le stelle…TORNERA’ ANCHE LEI “e gli applausi, anche degli adulti per questa attestazione di incrollabile fiducia, erano scroscianti !Tutto questo ci procurava quasi sempre una fettina di preziosa focaccia !
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