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Questa mattina i miei pensieri si accavallano e si spintonano per prevalere gli uni sugli altri e mi riportano a un mattino di tanti anni fa quando lavoravo al Ministero delle Finanze che si era trasferito a Brescia – da Roma – scalzato via dalle truppe americane e inglesi che conquistavano palmo a palmo la nostra povera terra martoriata. Era il 1943 e c’era la guerra, avevo sedici anni e, al Ministero ero stata assunta come dattilografa e all’ufficio copie eravamo in dieci, più o meno della stessa età. Il rumore dei tasti di dieci macchine che battevano i loro tasti era forse fastidioso, ma noi non ce ne accorgevamo. Qualche risatina, qualche allusione su rapporti tra colleghi di altri uffici e la bella incoscienza dell’età erano un provvidenziale aiuto nell’affrontare quei giorni intrisi di dolore, di inevitabili disagi, di ristrettezze e – anche – di fame.
A Brescia il Ministero aveva sede in una bella strada alberata e, più precisamente, in una ex scuola elementare. Di fronte, in una villetta a due piani (anch’essa requisita) avevano sede gli Uffici dei più alti Funzionari tra i quali il mio superiore diretto che mi riservava benevoli, paterni sentimenti. Veleggiava verso l’età della pensione, aveva un modo di vestire accurato, capelli bianchi e folti e ammiccanti occhi azzurri: I baffetti rimasti inspiegabilmente biondicci e un sorriso gradevole, completavano l’insieme di questa figura snella e signorile. Vestiva sempre di grigio. Il nome di battesimo non l’ho mai saputo. Per me era “il dottor Rosani”.
In quello stesso periodo cominciai a trovare, sul mio tavolino un minuscolo pacchettino che conteneva tre gianduiotti. Superato lo stupore si faceva strada la gioia e – considerato che l’omaggio era anonimo – io mi sentivo esonerata dall’obbligo della gratitudine e li dividevo felice, con le mie colleghe. Seppi in seguito che l’omaggio ( straordinario per l’epoca) mi veniva in virtù di una cotterella che il Dott.Di Pace si era preso per me. Questo timido dottorino dai capelli rossi era il nipote amatissimo del Dott. Rosani che aveva incominciato a perorare la causa del nipote. “Lei è tanto giovane…io la invito a riflettere… ci pensi …anch’io le voglio già bene…mi prometta almeno che valuterà questa possibilità..” E altro ancora.
E così anche gli amatissimi gianduiotti persero la loro funzione gratificante, anche perché - proprio nello stesso periodo fui trasferita alla sezione del Ministero del Tesoro che aveva la sua sede in un’altra zona della città in un signorile, bellissimo e antico palazzo nobiliare in con suggestivi affreschi e una struttura d’insieme di notevole fascino, e mi ritrovai, di nuovo, all’ufficio copie. Anche qui una decina di ragazze, me compresa, battevano sui tasti per otto ore al giorno fatti salvi gli intervalli imposti dall’ululare delle sirene che ci sollecitavano a lasciare il lavoro per correre nei rifugi.
Erano tempi difficili e quegli anni di guerra portarono in ogni casa lutti e sofferenze di ogni genere. Ma io – se chiudo gli occhi – rivedo i volti di quelle ragazze e colgo, come allora, nei loro occhi l’insopprimibile vitalità che la giovinezza regala, assieme alla fiducia, anzi, alla sicurezza di un avvenire migliore. Carla, Teresa, Emma, Elena e le altre si sono poi sparpagliate nella vita…e non le ho più riviste ma, per un po’, io rimasi legata a Clara .
Veniva da un paesino a pochi chilometri da Brescia e aveva una grande casa ( una specie di cascinotta) in mezzo alla campagna. Ricordo ancora quel portico che dava sul cortile acciottolato dove, oltre ad un lungo tavolo fiancheggiato da due lunghe panchine, c’era il forno nel quale la mamma di Clara cuoceva e sfornava il pane bianco che in città non si vedeva da tempo e non mancava mai di offrirmene. Nel rivivere quelle sensazioni di gioia risento il profumo – indimenticabile – di quel pane appena sfornato, profumo che mai nessuna torta o dolce manicaretto potrà rimpiazzare nel mio ricordo e nel mio cuore.
Clara era come quel buon pane fresco : sincera e buona e – in quel periodo – era innamorata: Mi faceva leggere i bigliettini che lui le scriveva e voleva che leggessi quelli con i quali lei rispondeva pregandomi di aiutarla a esprimere al meglio quello che sentiva, cosa che io facevo volentieri conquistandomi una sproporzionata gratitudine.
A guerra finita ci scrivemmo per un po’ e poi senza un fruscio uscì dalla. mia vita. Mi sono spesso ripromessa di rintracciarla ma non l’ho mai fatto, e improvvisamente…si è fatto tardi! r.m.
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