Ma c’è stato anche chi ha tratto vantaggio dalle quotidiane incombenti necessità della gente. i malati, i vecchi, coloro che non avevano fonti di approvvigionamento o mancavano della possibilità materiale di reperirle, erano costretti a dipendere da chi faceva la così detta “borsa nera” e (mentre alcuni si accontentavano di un modesto guadagno) c’era chi speculava praticando un vero e proprio strozzinaggio, arricchendosi.
Li chiamavamo “pescicani”. Ma questo termine non era certo tra quelli più agghiaccianti di cui si arricchì, velocemente, il vocabolario di quei tempi : “SS” Ghestapo, disertore, rastrellamenti, deportazione, rappresaglia, coprifuoco, oscuramento, mitragliamento, collaborazionismo, selezione etnica.
E poi…c’erano i bombardamenti. In una notte di luna, dell’estate del 1943, quando il cielo si illuminò artificialmente con l’arrivo di centinaia di “bengala” (palloni fluorescenti sganciati sulla città per illuminarla a giorno) cominciò un furioso bombardamento che sembrava non finire mai. Uscendo dal rifugio, trovammo la porta della nostra casa, contorta e le nostre quattro biciclette…sparite. Gli sciacalli aveva agito anche sotto le bombe.
A quella notte ne seguirono altre nel corso delle quali scappavamo tutti come topi nelle umide cantine, con le nostre poche cose senza sapere se al cessato allarme, avremmo ritrovato le nostre case o come accadeva a molti…ritrovarsi, impietriti con gli occhi gonfi di lacrime, a guardare macerie che disperdevano il frutto di anni di sacrifici.
Ma non era questa la sola, quasi quotidiana tragedia di quei giorni. Un’altra – di ben altra natura – entrava subdolamente nelle case, nelle famiglie e le minava, sfaldandole. La mia generazione si trovava alleata dei tedeschi mentre i nostri padri avevano visto nei tedeschi il nemico da combattere nella precedente guerra (1915-18) e nella stessa famiglia le divisioni ideologiche erano profonde.
Anche tra coetanei, alcuni si schieravano con le scelte di Mussolini e altri buttavano l’occhio oltre confine perché sentiva aleggiare, minacciosa la parola “deportazione”. E così mentre un ragazzo si rifugiava in montagna per combattere a fianco dei partigiani , suo fratello (fratello di sangue) si schierava a fianco dei tedeschi per scovarlo in quanto “ disertore”. Il tutto sotto lo sguardo disperato e impotente dei genitori.
Quei cinque lunghi anni che mi hanno transitato dall’adolescenza alla giovinezza hanno visto l’Italia lacerata in ogni senso…occupata al sud dalle truppe americane che avanzavano faticosamente conquistando palmo a palmo questa nostra terra martoriata mentre nel nord il Duce ancora ruggiva a Salò.
Tutti i Ministeri dovettero trasferirsi frettolosamente da Roma in alcune città del nord e a Brescia trovò idonea sede (a seguito della requisizione di una bella scuola elementare cittadina) quello delle Finanze, presso il quale fui assunta in qualità di impiegata realizzando così un temporaneo, ma utilissimo introito che fu il benvenuto anche in famiglia.
Consegnato ogni mese, orgogliosamente, alla mamma il reddito del lavoro ricevevo da Lei una modesta cifra da gestire a mio piacere. Cosa che facevo con parsimonia privilegiando però alcuni lussi tra i quali c’era…il bagno caldo al Diurno ! (albergo diurno)
Il “Diurno” offriva un complesso di servizi che comprendevano il barbiere, la manicure e i bagni. Entravo raggiante, con il fagottino della biancheria pulita e mi dirigevo alla cassa dove chiedevo felice: “bagno e manicure” iniziando così il settimanale gioioso intermezzo alla routine non proprio tranquilla di quei giorni bui.
Un inserviente in camice bianco mi accompagnava nel piccolo stanzino, lavava e disinfettava la vasca (seguita dal mio sguardo attento), faceva scorrere l’acqua calda che avvolgeva tutto in un vapore irreale; mi consegnava una saponetta piccolissima che mi scivolava spesso dalle mani e che recuperavo come un piccolo tesoro, mi augurava “Buon bagno” e se ne andava.
Rimasta sola immergevo il mio giovane corpo nell’acqua e lasciavo che la mente vagasse cercando oasi meravigliose e tranquille. Ed era lì – nell’età dei sogni – che immaginavo di sconfiggere il drago, superando difficoltà, sbarrando la strada a meschinità e soprusi fino a trovare il mio spazio speciale.
Ed era lì che sognavo il mio uomo, l’uomo da amare, tra le cui braccia avrei conosciuto la più completa, ignota felicità. Uscivo gocciolante dalla vasca, forte di tutte le mie certezze, mi rivestivo appagata e felice ed entravo nel regno della vanità, del superfluo.
Porgevo la mia mano alla manicure e mi rilassavo guardandola. Mary aveva capelli rossi, crespi, raccolti sulla nuca e l’aria triste, rassegnata. Aveva poco più di trent’anni ed era considerata zitella (le “single” sarebbero arrivate molti anni dopo) .Nei suoi occhi grandi, chiari, vedevo però apparire, un bagliore di speranza quando un maturo signore chiedeva di lei per la cura delle mani.
Una sorta di tenera civetteria la animava in quegli attimi, ma spariva assieme all’uomo che se ne andava. Cara Mary. Era bravissima nel suo lavoro e lo svolgeva con abilità e sicurezza contribuendo a farmi sentire, almeno per un paio di giorni, una signora. Le mie mani che scorrevano sulla tastiera della mia fedele Olivetti, così curate, con le unghie perfettamente smaltate, mi infondevano un senso di tranquillizzante, civettuolo, sornione benessere.
Le stesse mani scivolano adesso, ancora velocemente, sulla tastiera del computer, ma non riescono a tenere il passo con i ricordi che si affacciano prepotenti, si spingono, si accavallano protendendosi, tutti, per essere riportati a galla per primi.
Vogliono parlare di una vita senza imprese di rilievo. Una bella, normale vita che confortata da questi due semplici aggettivi si rivela, ai miei occhi, privilegiata.
Una vita, che – nella fase adolescenziale – è inserita in un contesto storico di rilievo. 1940 – 1945 anni di guerra che hanno lasciato in me un’unica certezza : lo strazio, le lacerazioni, i lutti, le ferite, le devastazioni sono e saranno sempre – anche per i vincitori - una tragica sconfitta. rm.
Li chiamavamo “pescicani”. Ma questo termine non era certo tra quelli più agghiaccianti di cui si arricchì, velocemente, il vocabolario di quei tempi : “SS” Ghestapo, disertore, rastrellamenti, deportazione, rappresaglia, coprifuoco, oscuramento, mitragliamento, collaborazionismo, selezione etnica.
E poi…c’erano i bombardamenti. In una notte di luna, dell’estate del 1943, quando il cielo si illuminò artificialmente con l’arrivo di centinaia di “bengala” (palloni fluorescenti sganciati sulla città per illuminarla a giorno) cominciò un furioso bombardamento che sembrava non finire mai. Uscendo dal rifugio, trovammo la porta della nostra casa, contorta e le nostre quattro biciclette…sparite. Gli sciacalli aveva agito anche sotto le bombe.
A quella notte ne seguirono altre nel corso delle quali scappavamo tutti come topi nelle umide cantine, con le nostre poche cose senza sapere se al cessato allarme, avremmo ritrovato le nostre case o come accadeva a molti…ritrovarsi, impietriti con gli occhi gonfi di lacrime, a guardare macerie che disperdevano il frutto di anni di sacrifici.
Ma non era questa la sola, quasi quotidiana tragedia di quei giorni. Un’altra – di ben altra natura – entrava subdolamente nelle case, nelle famiglie e le minava, sfaldandole. La mia generazione si trovava alleata dei tedeschi mentre i nostri padri avevano visto nei tedeschi il nemico da combattere nella precedente guerra (1915-18) e nella stessa famiglia le divisioni ideologiche erano profonde.
Anche tra coetanei, alcuni si schieravano con le scelte di Mussolini e altri buttavano l’occhio oltre confine perché sentiva aleggiare, minacciosa la parola “deportazione”. E così mentre un ragazzo si rifugiava in montagna per combattere a fianco dei partigiani , suo fratello (fratello di sangue) si schierava a fianco dei tedeschi per scovarlo in quanto “ disertore”. Il tutto sotto lo sguardo disperato e impotente dei genitori.
Quei cinque lunghi anni che mi hanno transitato dall’adolescenza alla giovinezza hanno visto l’Italia lacerata in ogni senso…occupata al sud dalle truppe americane che avanzavano faticosamente conquistando palmo a palmo questa nostra terra martoriata mentre nel nord il Duce ancora ruggiva a Salò.
Tutti i Ministeri dovettero trasferirsi frettolosamente da Roma in alcune città del nord e a Brescia trovò idonea sede (a seguito della requisizione di una bella scuola elementare cittadina) quello delle Finanze, presso il quale fui assunta in qualità di impiegata realizzando così un temporaneo, ma utilissimo introito che fu il benvenuto anche in famiglia.
Consegnato ogni mese, orgogliosamente, alla mamma il reddito del lavoro ricevevo da Lei una modesta cifra da gestire a mio piacere. Cosa che facevo con parsimonia privilegiando però alcuni lussi tra i quali c’era…il bagno caldo al Diurno ! (albergo diurno)
Il “Diurno” offriva un complesso di servizi che comprendevano il barbiere, la manicure e i bagni. Entravo raggiante, con il fagottino della biancheria pulita e mi dirigevo alla cassa dove chiedevo felice: “bagno e manicure” iniziando così il settimanale gioioso intermezzo alla routine non proprio tranquilla di quei giorni bui.
Un inserviente in camice bianco mi accompagnava nel piccolo stanzino, lavava e disinfettava la vasca (seguita dal mio sguardo attento), faceva scorrere l’acqua calda che avvolgeva tutto in un vapore irreale; mi consegnava una saponetta piccolissima che mi scivolava spesso dalle mani e che recuperavo come un piccolo tesoro, mi augurava “Buon bagno” e se ne andava.
Rimasta sola immergevo il mio giovane corpo nell’acqua e lasciavo che la mente vagasse cercando oasi meravigliose e tranquille. Ed era lì – nell’età dei sogni – che immaginavo di sconfiggere il drago, superando difficoltà, sbarrando la strada a meschinità e soprusi fino a trovare il mio spazio speciale.
Ed era lì che sognavo il mio uomo, l’uomo da amare, tra le cui braccia avrei conosciuto la più completa, ignota felicità. Uscivo gocciolante dalla vasca, forte di tutte le mie certezze, mi rivestivo appagata e felice ed entravo nel regno della vanità, del superfluo.
Porgevo la mia mano alla manicure e mi rilassavo guardandola. Mary aveva capelli rossi, crespi, raccolti sulla nuca e l’aria triste, rassegnata. Aveva poco più di trent’anni ed era considerata zitella (le “single” sarebbero arrivate molti anni dopo) .Nei suoi occhi grandi, chiari, vedevo però apparire, un bagliore di speranza quando un maturo signore chiedeva di lei per la cura delle mani.
Una sorta di tenera civetteria la animava in quegli attimi, ma spariva assieme all’uomo che se ne andava. Cara Mary. Era bravissima nel suo lavoro e lo svolgeva con abilità e sicurezza contribuendo a farmi sentire, almeno per un paio di giorni, una signora. Le mie mani che scorrevano sulla tastiera della mia fedele Olivetti, così curate, con le unghie perfettamente smaltate, mi infondevano un senso di tranquillizzante, civettuolo, sornione benessere.
Le stesse mani scivolano adesso, ancora velocemente, sulla tastiera del computer, ma non riescono a tenere il passo con i ricordi che si affacciano prepotenti, si spingono, si accavallano protendendosi, tutti, per essere riportati a galla per primi.
Vogliono parlare di una vita senza imprese di rilievo. Una bella, normale vita che confortata da questi due semplici aggettivi si rivela, ai miei occhi, privilegiata.
Una vita, che – nella fase adolescenziale – è inserita in un contesto storico di rilievo. 1940 – 1945 anni di guerra che hanno lasciato in me un’unica certezza : lo strazio, le lacerazioni, i lutti, le ferite, le devastazioni sono e saranno sempre – anche per i vincitori - una tragica sconfitta. rm.
9 commenti:
sono troppo giovane per sapere esattamente cosa significhi!
Però l'ho vissuto e visto con occhi diversi, gli occhi dei miei nonni.... cosa mi hanno raccontato è inutile dirlo qui, si divagherebbe e basta...
Ma le tue parole, renata, non sono molto dissimili da quelle dei miei ex nonni... e mi viene il groppo alla gola!
.................................
adb
Angelo, GRAZIE. Grazie per quel "groppo alla gola". Bacio.
...sei qui a raccontarcelo, cosa si può volere di più, a parte la speranza vana che nessuno più debba a conoscer "guerra" ?
Le difficoltà, le lacerazioni interne, una volta passate ci danno tanta forza ma anche tanta malinconia e dolore...
NEL RICORDO SI CELEBRANO LE PERSONE CHE NELLA LORO NORMALITA' HAN PORTATO IL PESO DI UNA STAGIONE SBAGLIATA !
Grazie dei ricordi,
l'ho letti con passione,
e poi
(a sensazione ma potrei sbagliare)
fai sciamar da te quel vago senso di colpa per gli attimi di civetteria...
Buongi Buongi !
Ciao Lucignolo, meno male! (avevo tanta paura di annoiare, ma ho voluto tentare). E "li ho letti con passione" regala ai ricordi una qualche utilità. Grazie! La civetteria ? Mi possiede ancora. L'accetto come parte di me e ci rido su. Un bacio.
I tuoi racconti hanno il sapore della storia viva, di quella che non è narrata sui libri attraverso la sola menzione di date e guerre, ha il sapore delle vite comuni, della storia della gente,di diari adolescenti, profuma di campagne verdi, vedo le stradine non asfaltate in cui passano le biciclette, vedo i pagliai nei cortili delle case, vedo i pozzi in cui si attingeva l'acqua. Anche mia nonna, e mio babbo allora bambino mi hanno fatto questi racconti ed io li ho sempre ascoltati affascinata e rapita, più che se fossero favole.
Cara Lea, sapessi come mi fa piacere "sentire" che le emozioni trovano accoglienza! Sai cosa mi manca della semplicità del tempo successivo alla guerra? I ragazzi, gli uomini che fischiettavano pedalando in bicicletta! Puerile? No, sai, fischiettare rende l'idea della serenità e farlo nel gioioso pedalare.....evoca visioni di strade tranquille e sicure. Hai colto il sottinteso! Grazie Lea.
Buona serata amica mia.....
Cara Renata, è tardissimo.
Il fatto è che oggi sono venuta più volte a leggerti, ma non riuscivo a scrivere niente.
Vedevo mia figlia al tuo posto e mi veniva da piangere, pensavo a me, al tuo posto e - come già altre volte - mi chiedevo se sarei riuscita a non avere un attacco di cuore per la paura.
Pensavo a te, alla tua adolescenza difficile, sprecata, come quella di tante altre persone (mia mamma che era una giovane donna e andava a lavorare in bicicletta, nonostante le bombe).
Pensavo a tutti coloro che OGGI se ne lavano le mani di tutto quanto ci è accaduto.
Buona notte Renata, ti voglio bene!
Cara Dama, quante risorse offre la vita! mi dispiace la tua tristezza. La capisco bene. La rivivo guardando gli occhi delle mie belle giovani nipoti, nella fiduciosa allegria dei miei tre pro-nipoti.Ma ho imparato a non sciupare nemmeno una briciola di ogni giorno. Cerco di riempirlo d'amore.E' la sola cosa che posso fare. E adesso, accarezzo il tuo sonno.
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