Tornavo in Cascina il fine settimana e “La cà
de Cané” la Casa tra i canneti mi sembrava ancora più accogliente. A Brescia i
bombardamenti erano continui e scarseggiava tutto. Si viveva nella paura, ma in
cascina, quell’autonomia che in tempi normali poteva sembrare carente dava –
nella tragica situazione di quegli anni – l’idea del privilegio.
Lì c’era
ancora il pane, la polenta, si poteva sacrificare qualche gallina, c’era il
latte, c’erano le uova e frutta e verdura come in tempi normali. E la notte ci
si poteva spogliare per andare a letto, senza dover rimanere pronti a scappare
nei rifugi. Si sentiva però il deflagrare delle bombe sulla città e quel
sollievo dalla fame, non fugava l’angoscia. Le automobili erano poche e quasi
tutte utilizzate dai militari perché quelle poche di proprietà privata erano
state tutte requisite. Anche molte case di lussi, belle villette erano state
requisite per alloggiare gli alti papaveri, e gli alti gradi militari. Con
l’entrata in vigore delle folli leggi raziali molti italianissimi ebrei erano
stati deportati.
Era il tempo dell’oro alla Patria, delle cancellate di ferro
divelte perché anche il ferro serviva. Era il tempo della Repubblica di Salò,
di rappresaglie, retate, mitragliamenti, smembramenti familiari. Nella stessa
famiglia un giovane aderiva alla Repubblica e l’altro combatteva a suo modo in
montagna. Lacerazioni di ogni genere, tempi di quotidiano terrore.
Io vedo la guerra incarnata in un enorme,
gigantesco mostro senza occhi con mille braccia e mumerosi grandi piedi che
schiacciano tutti noi improvvisati bonsai d’uomo che fuggono terrorizzati con
in braccio i loro cuccioli e inciampano e soccombono senza scampo. Maledetta guerra e
stra/maledetti tutti coloro che – al riparo – costringono altri a subirla.
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